15.11.06

Mi piace il sangue dall'incavo fra braccio e gomito...

 
 



....Lì dove è più frizzantino di ossigeno che viene diretto dal cuore, mosso ma non strepitante che corra verso i pensieri. Dove sa di fare più che di essere e di avere.

Polvere. Polvere rossa calda nei miei arsi polmoni. E poi i polmoni non c’erano più. Almeno questo è quello che mi ha detto Pelopida. Pelopida non è esattamente il mio sire, ma ci si avvicina parecchio. Il mio ultimo respiro è stato polvere, rabbiosamente gettatami in viso mentre morivo, appeso a quel ramo. Luce ancora viva, luce del sole, e un passo su un masso, e un salto di giù. Quella corda che stracciava la mia pelle intorno al collo, non solo sulla gola, dove ero solito vederla stracciata nei poveri impiccati, anche dietro e di lato, la pelle squarciata, il respiro rotto, ripreso, poi rantolato, infine spezzato, poi il buio. Poi la tenebra. Infine il terrore. Terrore di essere maledetto per l’eternità. Dev’esserci stata una risata, mi dice Pelopida, una risata od un pianto, sinistro, mancino, giacchè io non posso ricordare farò bene a fidarmi di chi mi ha assicurato la vita.
Pelopida non me la donò, sia chiaro. Lui non avrebbe mai abbracciato un derelitto miserabile chiaramente inviso al Signore, ma nemmeno, bontà sua, lo avrebbe lasciato a languire. Ne avrebbe di certo fatto almeno un servitore. Pelopida è un tipo affilato, con il naso adunco, e la mascella storta, cionondimeno un tipo di gran classe; al tempo indossava sempre pepli blu né acceso né spento, come si conviene ad un vero belluomo. Nonostante le sue labbra rosse si stagliassero sottili sul suo delicato incarnato il Principe di Atene era gradevole, proporzionato e grazioso, di armonia allenata per quelle loro manifestazioni sportive, le olimpiadi, cui teneva sempre. Portava la fiaccola con somma dedizione, a noi parve più di una volta anche con qualche tremito. Che fosse un tremito di repulsione, come la sua natura avrebbe richiesto, o che fosse un tremito di gioia, come richiedeva invece il suo ego sempre volto al bello senza mai carpirlo, non ci è dato sapere. Ma una notte mi rapì. Lui stesso volle partecipare all’azione, stando a quel che mi racconta. Io ero polpa. Polpa e peccato, io più d’ogni altro. Un mirmidone, secondo sé stesso, guidava l’azione nel fresco della sua corazza di cuoio piastrato di bronzo. Brandiva una lancia, arma stupida, e si crogiolava nel suo possente potere. Pelopida imbragato di calzari puntuti, come se sapesse usarli, il capo cinto di un elmo con cimiero, sbavava al pensiero. Noi viaggiavamo ai margini del deserto, fra sabbia e spiaggia, fra caldo ed umido, e di giorno venivo seppellito, e di notte spintonato a calci dai cammelli. Posted by Picasa

2 commenti:

Puket S. ha detto...

E' che son nata strega.
Sennò sarei diventata vampira.
Vuoi mettere?
Mordere anzichè maledire...

Sotto ha detto...

e gustare le emozioni e sensazioni del sangue non come echi lontani di uno sfregamento animale, ma come un consapevole abbeverarsi e nutrirsi di atrui vitae. E concederlo anche.

Ce ne vuole!