Si avvicinano con la luce. Oppure senza luce, non gliene frega niente. Tutta la sera infatti è acquietata di lampioni e finestre accese, di fari d'automobili e insegne luminose.
Quando si perde aderenza con la realtà si può farlo in due modi, anche se in fondo alla fine sarà la stessa cosa.
Ma non è ancora la fine no?
Si può perdere coesione cinematica con il mondo circostante la propria senzienza e non accorgersene, oppure si può avere l'impressione di lasciare in qualche modo il mondo di là dal velo per attraversare lo schermo.
In entrambi i casi, ma più facilmente nel secondo, oh, quanto più facilmente, si dà a sè stessi l'imperativo "nomina", atavico e biblico. Corrisponde all'imperativo "giudica"? In un certo senso l'uomo si trova in un transitorio temporale superato il quale lato corto della campana è considerabile in un nuovo sistema, ed allora è come se ognuno fosse l'unico, il primo ed il solo. E vede gli altri, i tutti, quelli.
E nomina. Nomina attraverso il proprio giudizio, e sia esso giudizio inficiato oppure no da quel che prima lo ha toccato, congestionato, usato, percosso, oppure no lasciandolo scevro ed in un certo senso vergine, in questa campana di là dallo schermo esso è vergine, e gudica. Nominando.
E tali nomi assurgono ad identità in una foglia di mondo, in un tempo verde e sottile. I nomi stessi che hanno primigenio il giudizio, rimangono aderenti a sè stessi, bevendo dal diritto che hanno, come tutti i creati, di essere, in cui è compreso l'essere male, l'essere giusto, l'essere proiezione distorta oppure felice. E molto altro.
In un certo senso è come se Dio, o quel che a Sua immagine e somiglianza è nel Demonuomo, visto che è nell'uomo che non ha mutato la propria natura, vedesse sopra ciascuno oltre il velo un numerino indicante una quantificazione, un numerino colorato, cangiante in maniera discreta oppure continua, questo dipende dalla natura della campana sotto cui ci si è introdotti.
Certo, nessuno ne capirà un beneamato cazzo, ed alla fine sarà un peccato.
Ma non siamo alla fine, no?
Bè alla fine del preambolo sì.
16.11.06
Demoni
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15.11.06
Mi piace il sangue dall'incavo fra braccio e gomito...
....Lì dove è più frizzantino di ossigeno che viene diretto dal cuore, mosso ma non strepitante che corra verso i pensieri. Dove sa di fare più che di essere e di avere.
Polvere. Polvere rossa calda nei miei arsi polmoni. E poi i polmoni non c’erano più. Almeno questo è quello che mi ha detto Pelopida. Pelopida non è esattamente il mio sire, ma ci si avvicina parecchio. Il mio ultimo respiro è stato polvere, rabbiosamente gettatami in viso mentre morivo, appeso a quel ramo. Luce ancora viva, luce del sole, e un passo su un masso, e un salto di giù. Quella corda che stracciava la mia pelle intorno al collo, non solo sulla gola, dove ero solito vederla stracciata nei poveri impiccati, anche dietro e di lato, la pelle squarciata, il respiro rotto, ripreso, poi rantolato, infine spezzato, poi il buio. Poi la tenebra. Infine il terrore. Terrore di essere maledetto per l’eternità. Dev’esserci stata una risata, mi dice Pelopida, una risata od un pianto, sinistro, mancino, giacchè io non posso ricordare farò bene a fidarmi di chi mi ha assicurato la vita.
Pelopida non me la donò, sia chiaro. Lui non avrebbe mai abbracciato un derelitto miserabile chiaramente inviso al Signore, ma nemmeno, bontà sua, lo avrebbe lasciato a languire. Ne avrebbe di certo fatto almeno un servitore. Pelopida è un tipo affilato, con il naso adunco, e la mascella storta, cionondimeno un tipo di gran classe; al tempo indossava sempre pepli blu né acceso né spento, come si conviene ad un vero belluomo. Nonostante le sue labbra rosse si stagliassero sottili sul suo delicato incarnato il Principe di Atene era gradevole, proporzionato e grazioso, di armonia allenata per quelle loro manifestazioni sportive, le olimpiadi, cui teneva sempre. Portava la fiaccola con somma dedizione, a noi parve più di una volta anche con qualche tremito. Che fosse un tremito di repulsione, come la sua natura avrebbe richiesto, o che fosse un tremito di gioia, come richiedeva invece il suo ego sempre volto al bello senza mai carpirlo, non ci è dato sapere. Ma una notte mi rapì. Lui stesso volle partecipare all’azione, stando a quel che mi racconta. Io ero polpa. Polpa e peccato, io più d’ogni altro. Un mirmidone, secondo sé stesso, guidava l’azione nel fresco della sua corazza di cuoio piastrato di bronzo. Brandiva una lancia, arma stupida, e si crogiolava nel suo possente potere. Pelopida imbragato di calzari puntuti, come se sapesse usarli, il capo cinto di un elmo con cimiero, sbavava al pensiero. Noi viaggiavamo ai margini del deserto, fra sabbia e spiaggia, fra caldo ed umido, e di giorno venivo seppellito, e di notte spintonato a calci dai cammelli.