19.2.07

L'ultima

Catalessi. Katà lexis. O gatta lessie, che è un po' ossimorica come figura visto che lassie da che mondo è mondo è un cane. Non ci voglio andare a letto, per dovere chiudere gli occhi e rivedere quelle scene, e risentire quelle parole, rivivere come un morto avvizzito, avvinazzato.Stordirmi, voglio solo stordirmi, di quel tanto che basta per farmi coricare tranquillo, non che ci sia niente di preoccupante, sia chiaro, ma temo una ricaduta, che sarebbe fallimentare. Mi duole il collo. Avrei bisogno di un massaggio. La mia anima è stata massaggiata, così come il mio cuore, oggi, e violentati, insieme, dalla stessa voce, con proiettili timidi, imbarazzati."ti imbarazza?" "non dovrebbe?" dov'è finita la tua sicurezza altre volte ostentata? Dove il tuo tono sprezzante che indicava una superiorità così netta e decisa, che non quadra per nulla, l'essere sprezzante, con quel che mi ricordo io, o forse sì che quadra, o forse no! Ma Fin dall'inizio: "Siete due, dentro te, e ce n'è una antipatica e odiosa, e una gentile e devota, sorridente e timida, dolce e forte, risoluta e tenera." A capodanno del duemila abbiamo brindato con una bottiglia di champagne e dei flute, lanciandoli dietro le spalle: "fanculo i rimorsi, fanculo i rimpianti", eravamo fortissimi, un'auto, un biglietto per un locale, dove abbiamo ballato, stretti. Io con il mio abito e la mia cravatta, e tu con il tuo vestitino da cui trasparivano le gambe, inguainate in un paio di autoreggenti che mi dicesti: "non le vedrai mai!" Però poi ho tenuto i tuoi piedini sulle mie gambe, accarezzandoli, e per loro tramite accarezzando te, prima e dopo. Nel mezzo mi sono spogliato sulla neve, in mutande, senza sentire freddo. Per via dello champagne? Non so. Non so se spogliandomi volevo significare che ero pronto a togliermi di dosso tutti i pregiudizi che mi coprivano come una corteccia, la presunzione che copre il mio timore di inadeguatezza, Non so se ero caldo per il veuve clicquot o se ero caldo perché il tuo sorriso stentato non bastava a coprire quel barbaglio scintillante nei tuoi occhi. Quello stesso barbaglio che son riuscito a fotografare. Come si può pensare di fotografare l'amore? Lì ce l'ho fatta, per caso. Il mio amore, che quindi, per un bizzarro gioco del destino e di ombre e luci, e di specchi e riflessioni, è rimasto catturato, in quell'obiettivo, è rimasto impresso su quella carta, in un sempre che io pavento così vivo, così vivo. Quel che segue è confuso, in auto alla volta del gelato, io ti chiedo un bacio e tu me ne dai mille, insieme, e allora è vero che sono ad immagine e somiglianza di dio, e che è un dio d'amore, che ne pensi? Perché come altro potrei guidare per due o tre chilometri con gli occhi chiusi e i campanelli che trillano e le orecchie che rimbombano al solo contatto con le tue labbra? Senza fare incidenti? Via, ancora in auto, mi hai detto di voler fare l'amore con me, e mi ricordo…

Mi ricordo che eri riccia, boccolosa, splendida. La tua pelle riluceva fra le pozzanghere di Messina come perle su di un tavolo d'oro, e il tuo respiro, tradiva attesa, e i tuoi occhi, non ho mantenuto lo sguardo. Ti accarezzerei piano, come quando dormivi, e io stavo notti intere a cercare il tuo profilo nel buio, a bere il tuo respiro profumato, a sfiorare il tuo viso, ad abbracciarti senza che te ne accorgessi, senza che il tuo riposo ne fosse di nulla scosso. Un bacio sulla guancia, al massimo. Una volta mi hai dato un bacio sulla guancia. È stato un bacio bellissimo, più bello di quello sul divano in terrazza. Forse non è in te, ma te l'ho dipinto addosso. Il fatto è che ti dona da impazzire!

Non respiro.

Ho un coso nel petto, sospetto che sia quello stesso uccello padulo che altri dicono entri in culo. È strano che io non me lo senta in culo? Che io sia consapevole e determinato? Avevo una sola cartuccia, l'ho sparata, e non è andata a vuoto, no, perché no no no! Non è a vuoto. Tu sei migliore, tu sei stata felice, dicevi: "che cos'e' quella cosa che mi travolge quando ti "percepisco"?" Ok. Non è stata a vuoto. Ma è stata sparata. Se una volta, anche solo un'altra volta nella tua vita, da sola, anche se magari non mi vedi da anni, avrai quel lucore negli occhi, quello di trepidazione e fiducia, quello in quella foto, anche solo un'altra volta, la mia sarà stata un'ottima cartuccia. Non me lo sento in culo, in fondo sono stato io ad abbandonarti, a tradirti, a deluderti. Ho perso lucidità, ho perso ambizione, mi succede è una debolezza. Mi sono fermato, tronfio di quel colpo perfetto che avevo messo a segno. Non ho riconosciuto i silenzi. Non sono stato uomo. Non ho smesso di pensarti non dico un giorno, ma nemmeno sei ore. Mi son detto, è un'ossessione, una fissazione, mi sono umiliato: "penso a lei solo perché cerco chi me la da prima". Chiodo scaccia chiodo. Manco per idea. Ho provato a disprezzarti, o a deriderti dentro di me. A rivolgermi a te nel mio pensiero come "tettine" o in modi antipatici. Ma rimane quel sorriso. Quello sguardo. Sono andato via, ogni notte pensando a quando ti avrei rivista, come un soldato, lontano, in guerra. Spesso mi sono rincuorato da solo, curato le ferite, le abrasioni, una lettera senza risposta. Una voce.

Attenderò quieto. Mille anni. Pronto alla perenne assenza. A costruire, venticinquenne, una vita su di te, lontana. Con te, lontana. Da solo. Che poi di solitudine non si tratta, con amici e parenti, con donne e ragazze, e ragazzine. Privo. Come un orfano del genitore. Ma con in più la gioia segreta perché tu sei viva. Ed hai una voce. Un sentire. Tutto per te, quel che costruisco. Una tribù attorno, amici sinceri, armonia. Eleganza, viaggi, discoteche. Cinema, libri, partite di calcetto. Esulto e bacio quell'anello che immagino. Che è solo un simbolo, quindi manca tanto quanto. Le mie risate? In tuo onore. Stappo una bottiglia? Ne va un po' in lavandino, per chi non è accanto a me, ma convive nel mio cuore.

Sopraggiunge il nichilismo, nulla veramente importa, e preveggo, come accade ai miei amici, un giorno di ritrovare una svilita passione, una felicità svalutata, ormai represse in ancora giovinezza le belle speranze di amore, carriera, famiglia. Di onore, come uomo, di quei piccoli eroismi che ancora ci sono concessi. Di mantenere la calma in momenti fuori dal comune, perché a intraprendere straordinarie azioni son bravi tutti, se attorno è quieto. Un balzo dal bunjee, con tutta la tua calma è un conto, una semplice nuotata, è un altro conto, se da quella nuotata, magari al buio e in burrasca dipende la vita di qualcuno cui tieni. Perciò non mi sento un eroe per aver fatto tuffi e voli, salti e lanci. E non mi sento un amante per come son stato durante. Ma il dopo. Che strano, ho la sensazione che ci possa essere un errore in questo. Dopo, al buio. Dopo, in silenzio, combattendo i mulini a vento, novello don chisciotte, combattendo gli squarci di quei lampi che venivano neri e potenti, a squarciarmi la schiena, quando mi dicevano di te. Sei diventata innominabile. E così hai potuto, ha potuto il mio ricordo di te, assurgere ad un nuovo confronto, sereno e malinconico. Ogni poesia che sento dentro è per te, mio malgrado, senza forzature, anzi se forzature ci sono state sono quelle atte a dimenticare, ad accantonare, ma come in ogni cosa, è il giusto peso che cerca il giusto spazio, e così è, se mi pare. Che il balsamo della tua voce per me sia più lenitivo e nutriente che Nausicaa per Odisseo, che il ricordo del tuo pensare abbia solo lo spin opposto, e sia sulla stessa orbita, del mio. Che la memoria del tuo sentire sia come il dolore di un mutilato, che avverte vivo quel che più non ha. Questo è il giusto peso. Inutile e sbagliato non considerare un peso siffatto. Gioisco della tua gioia, trepido con te, per te faccio il tifo. Io attenderò qui, mille anni ancora, per vedere quel sorriso, felice. E poco importa se non sarà per me, è necessario che sia, io son qui, accanto.

13.2.07

Ovatta attratta.


Da elettricità e cotone sfregato. Contro tutta la pelle possibile.

Ovatta attratta matta.

Ammattita da pannocchie dolci,

Attratta da profusioni, effusioni, pozioni e musioni.

In tutta la carica elettrica che attrae l’ovatta.

Ovatta attratta matta schiatta.

Deflagra, deflora, viagra.

Deflagra: esplode con un turbinio di maelstrom, già visto, sentito, violento, tradito.

Deflora, macchè! Che chiedi? Perché? Ne hai ventitré, non son io, non è me.

Viagra, neoclassico. “fottila”: giurassico.


La schiatta del passato, un’onda che ritorna; che vuoi:niente.


Tutto così lontano, grande, immenso.
Datemi una cannuccia che devo bere il vino.
Camelie. Stregatto astratto.
Mossa da vampiro e favella da stregatto astratto,
cosa porta una nuova fascia di cachemire attorno ai capelli?
Rasta, non basta.
Strano, di nuovo.

Me lo setti l’oroblogio?

Dov’è il presente? È pesante.

Dove il passato? Andato.

E il futuro? Oscuro.

Brilla la griglia dei punti unti
di olio e petrolio,
di spese e contese,
di casse e melasse.

Che poi diventano Rum.


Non mi piace il Cuba libre senza rum, hic! Hic haec hoc. Hhuwey, dwey, louie.

All’ombra dei cipressi e dentro l’urne, ad malora, ci rivedremo a filippi, mio caro ego.

Per intanto giaci affranto.

Oberato di colore e calore,

di progetti e rigetti.

Un quattro e mezzo scala quaranta,

e scende sottozero. A meno zero.

Ameno zero, inizio neutro.

Verde nella rulette, in bianco nella roulotte.

Bitches they come they go.

Non c’è mai stato un tuttora così potente.